L’evoluzione del Mercato Unico Europeo

Il 5 Maggio 2020 la Corte Costituzionale tedesca ha formalmente chiesto al governo e al parlamento di verificare se la BCE ha effettivamente attuato una politica “proporzionale” di Quantitative Easing, senza favorire alcuno Stato membro o senza eccedere i limiti del proprio mandato (dal 2014 la BCE ha acquistato oltre 2,2 trilioni di euro di debito del settore pubblico).

E’ stato inoltre chiesto alla BCE di dimostrare nei prossimi 3 mesi le ragioni economiche che hanno giustificato il suddetto intervento. Le conseguenze di questa sentenza potrebbero mettere a serio rischio il futuro supporto da parte della BCE ai governi dell’UE in questo delicato periodo di emergenza finanziaria e potrebbero condizionare fortemente i mercati finanziari.

In questa fase, un’analisi dell’evoluzione del Mercato Unico Europeo e’ sicuramente utile al fine di comprendere lo scenario attuale e gli effetti di questa emergenza pandemica.

L’iniziale politica di “coesione economica e sociale” europea mirava a ridurre le differenze di sviluppo economico tra le varie regioni europee, attraverso la libera circolazione di beni / servizi, persone e capitali; cio’ nonostante diversi studi hanno dimostrato che i risultati previsti non sono stati pienamente raggiunti.

Ciò è confermato dagli obiettivi “troppo ambiziosi” in termini di stabilità dei prezzi e livello di disoccupazione inizialmente stabiliti dal Rapporto sulla Convergenza Europea.

Nonostante le politiche di convergenza adottate tra gli anni 80 e 90 fossero state incentrate sulla riduzione delle disuguaglianze socio-economiche delle regioni, i loro effetti non furono così notevoli, malgrado l’enorme quantita’ di risorse stanziate. Una delle principali critiche all’Atto Unico Europeo (1986), al Trattato di Maastricht (1992) e all’Unione Monetaria Europea (1999) riguarda l’adozione di politiche monetarie restrittive per gli  Stati membri insieme alla libera circolazione dei capitali e alla libera/efficiente allocazione dei fattori della produzione.

In questo processo, le multinazionali sono state agevolate nell’attuazione delle loro economie di costo e dal facile accesso al mercato dei capitali a condizioni vantaggiose; in particolare le grandi aziende hanno beneficiato del processo di delocalizzazione, supportato anche dagli elevati investimenti europei (es. nelle infrastrutture di trasporto).

La convergenza socio-economica delle regioni e la libera circolazione di beni/servizi, delle persone e dei capitali sarebbero state le 2 condizioni preliminari a un’unione monetaria; tuttavia, le critiche alla libera circolazione dei capitali sono aumentate a causa dei limiti imposti agli Stati membri nella  determinazione dei tassi di interesse (e del livello di debito pubblico) e per via della forte speculazione internazionale. Inoltre la prerogativa degli Stati membri di adeguare unilateralmente i tassi di cambio, già limitata dall’adozione del Sistema Monetario Europeo nel 1979, è stata totalmente cancellata con l’introduzione dell’Euro. Infine, la sovranità monetaria è stata completamente persa con la costituzione della Banca Centrale Europea nel 1988.

Nel 1992, il Trattato di Maastricht ha introdotto i due principali parametri di convergenza  (3% di deficit/PIL e 60% di debito/PIL) insieme ad altre importanti limitazioni relative ai tassi nominali di interesse e di inflazione, agli adeguamenti dei tassi di cambio e alla possibilità per le banche centrali di operare come prestatore di ultima istanza.

Ancora oggi non sono chiari i criteri utilizzati nel definire questi due parametri e soprattutto il loro processo di attuazione, visto che la maggior parte degli Stati ha avuto molti problemi a rispettarli (in alcuni casi ricorrendo anche a “artifici contabili”).

Per questo motivo, molti economisti sottolinearono che questi indicatori rappresentavano un limite alla crescita del sistema economico, alla luce anche dell’alto costo della strategia di convergenza (peraltro non completamente raggiunta).

Importanti studi accademici hanno quindi evidenziato il modo in cui le misure dell’UE abbiano limitato la  crescita economica: oltre ai vincoli restrittivi imposti dal Trattato di Maastricht, anche il Trattato di Lisbona e il Fiscal Compact hanno fortemente influenzato la produzione industriale, il tasso di disoccupazione e il potere d’acquisto dei consumatori.

In particolare, l’introduzione in Costituzione dell’obiettivo di pareggio del bilancio (Fiscal Compact 2012) ha avuto conseguenze drammatiche sulla spesa pubblica e sulla pressione fiscale; a tal fine, diversi importanti economisti e politici hanno piu’ volte suggerito di non considerare gli investimenti per la crescita nel calcolo dei parametri di Maastricht.

Come anticipato, con la libera circolazione dei capitali e l’introduzione dell’Euro (nel 1999 come unita’ di conto virtuale e  nel 2002 come denaro contante), la possibilita’ per gli Stati membri di adeguare i tassi di interesse e di cambio o di contrarre prestiti da istituzioni pubbliche è stata sostituita dalla logica del libero mercato dei capitali; in questo modo la crisi di liquidità agli inizi del 2000 si e’ trasformata in una crisi di solvibilità, anche a causa della speculazione internazionale e dell’elevato spread.

Inoltre, le misure non convenzionali adottate dalla BCE (LTRO, OMT e QE) sono risultate non efficaci al 100% a causa dell’impossibilità per la banca centrale di agire come prestatore di ultima istanza e per via dell’inefficienza dimostrata dalle banche locali nel trasferire queste disponibilita’ al sistema produttivo.

Molte imprese hanno risentito negativamente delle politiche adottate da altri Stati membri in materia di bilancia commerciale, tassi di cambio e mercato dei capitali (prima e dopo il 1992).

In particolare, la perdita di competitività di molte aziende è stata causata dall’impossibilità per gli Stati di adottare una politica di fluttuazione/differenziazione dei tassi di cambio, dalla riduzione della spesa pubblica destinata alla crescita economica, dall’aumento della pressione fiscale, dalla stagnazione della domanda e dalla stretta creditizia da parte delle banche; per essere più competitive, molte imprese sono state obbligate a ridurre ulteriormente il costo del lavoro e la spesa per l’innovazione.

In particolare, dall’adozione del Sistema Monetario Europeo (1978) al 1992, alcuni paesi (come la Germania) hanno costantemente aumentato le esportazioni svalutando la loro valuta e prestando l’eccesso  di capitale derivante dal surplus della bilancia commerciale.

A seguito della riunificazione della Germania (1990), l’aumento della domanda interna ha contribuito al deficit della bilancia commerciale e, per questo motivo, la Germania ha iniziato a importare capitali, costringendo altri paesi ad aumentare il tasso di interesse dei loro bonds: tutto ciò ha innescato una speculazione internazionale nel 1992. Inoltre, il saldo delle partite correnti tedesche, in deficit fino al 2001, ha registrato un surplus dopo l’introduzione dell’Euro (a differenza di Italia e Francia). La Germania e’ inoltre stata favorita da un basso livello di inflazione e dalla forte presenza di grandi imprese (a sostegno dell’esportazione), mentre in Italia il PIL pro-capite è penalizzato dalla presenza massiccia delle piccole/medie imprese.

Inoltre i bonds tedeschi hanno attirato capitali internazionali, in parte reinvestiti in obbligazioni ad alto rendimento di altri paesi; questo processo è stato favorito dall’elevato spread e dal declassamento di questi paesi da parte delle agenzie di rating. In questa situazione la Germania ha avuto modo di prestare capitali agli importatori dei suoi prodotti, la cui competitivita’ ha fortemente risentito dello spread (quindi degli alti tassi di interesse dei loro bonds).

Nel 2002, l’ISTAT ha calcolato che 2,5 milioni di famiglie italiane vivevano sotto la soglia di povertà (~11% delle famiglie) e l’8% era a rischio di povertà. Nel 2015 il numero di residenti italiani in assoluta povertà e’ aumentato di 5 milioni e 1.582.000 famiglie risultavano non avere entrate.

Dal 2008 al 2016 il tasso di disoccupazione è aumentato dal 6,7% al 12% e il tasso di disoccupazione giovanile (sotto i 24 anni) dal 21,3% al 39,2%. La crisi finanziaria attuale innescata dal  Covid19 avra’ sicuramente effetti ancor piu’ devastanti sul PIL e sugli altri indicatori economici.

In conclusione, oltre alle iniezioni di liquidita’ di cui stanno discutendo in questi giorni le autorità europee, sarà necessario chiarire il ruolo della BCE e la “clausola di non salvataggio”, rinegoziare i parametri europei di convergenza e investire in iniziative di crescita economica

a cura del Prof. Paolo Bongarzoni

PhD Strategic Management e Economics – Vice Rettore, Business Professor

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