Monte San Giorgio, memorie del sottosuolo

Rettili, pesci, crostacei, molluschi e invertebrati d’ogni foggia, colore e dimensione. Immaginate una fitta popolazione acquatica, centinaia di specie animali e vegetali ospitate in un habitat naturale del tutto inatteso: una montagna. Siamo sul Monte San Giorgio, una delle montagne più perturbanti che si affacciano sul Ceresio. Secondo le angolazioni da cui la si osserva, l’altura assume fisionomie diverse, come se il suo profilo fosse in continuo divenire. Talora è una donna coricata, oppure un coccodrillo, oppure ancora un uomo incappucciato. Sarà, forse, la mia fantasia, eppure il Monte San Giorgio è davvero una montagna fantastica, soprattutto se osservata dal suo ventre, esplorandone il cuore.

Devo ammettere che ogni volta che la affronto, incamminandomi per i suoi sentieri, avverto un sentimento a metà tra l’attrazione e il timore. Impossibile comunque non proseguire il cammino, impossibile non ritornarci una prossima volta, con la certezza di scoprire qualche cosa di nuovo. L’aura misteriosa che avvolge questa montagna è in gran parte dovuta alle creature acquatiche che durante il Triassico medio – cioè da 245 a 230 milioni di anni fa – abitavano qui. Quest’altura, infatti, in quel periodo era il fondale di un mare non molto profondo ma sufficientemente accogliente per stimolare la vita di animali e vegetali di cui oggi restano preziosissimi fossili in gran parte perfettamente conservati.

Se per la gente della montagna il Monte San Giorgio ha sempre rappresentato una fonte insostituibile di risorse vitali, come il carbone di legna, le fornaci di calcio e le cave di marmo, per gli studiosi è uno scrigno fondamentale per la paleontologia. Una fetta di storia dell’evoluzione naturale in cui potersi letteralmente immergere e sentirsene parte. Botanici e paleontologi cominciarono i loro pellegrinaggi alla scoperta della primitività della montagna già nel 1700 ma il vero interesse scientifico è iniziato dopo la metà del XIX secolo, fino a rendere il Monte San Giorgio elvetico gemma del Patrimonio mondiale dell’Unesco, nel 2003. Nel 2010 venne inclusa anche la parte italiana.

L’immenso cimitero fossile custodito nel terreno è la memoria dell’evoluzione della vita: i rettili del Triassico ci tramandano la struttura fossile del loro scheletro, dimostrando l’adattamento alla vita marina. Pare impossibile immaginare qui il mare mentre ci si inerpica su per le vene della montagna, avvolti da una vegetazione a tratti inquietante, almeno in questa stagione dove tutto è esuberante e brillante. Spesso i sentieri sono anche rocciosi e per niente accoglienti ma fa parte del fascino misterioso di una montagna che, forse, vorrebbe difendersi e conservare nel suo cuore almeno qualche segreto.

Segreto tenuto nascosto, magari, in una delle tante grotte che trapuntano i fianchi del monte. Sono cavità di origine carsica, se ne conoscono almeno una trentina ma non è escluso che ce ne siano altre ancora vergini. Non sono molto profonde, la maggior parte non supera la ventina di metri di lunghezza, ma queste grotte sono naturalisticamente importanti perché qui si rifugiano gli animali che amano il buio. Altro motivo di inquietudine, almeno per me. Ragni, pipistrelli, tipule, farfalle, insetti e millepiedi proliferano che è un piacere qui, indisturbati da animali predatori e umani curiosi.

Si sente la brulicante presenza di questi animaletti che danno un senso di continuità alla vita, evocando quei fossili in cui un giorno anche loro, probabilmente, si trasformeranno.Anche se non metterei mai piede in una di queste grotte ne intuisco l’arcano fascino. Molte sono state battezzate con nomi eloquenti per chi comprende il dialetto locale, come la Palüscera, ul Böcc da la Ratategna, ul Böcc da la vaca, la Tana dal Lüf.

Proprio sulla vetta del monte, si apre la Tana del Beato Manfredo da Settala che, secondo la tradizione, trascorse qui parte della sua vita come eremita, nel XIII secolo. Ma la più conosciuta, forse, è la Bögia che si apre su un fianco della Val Serrata. È una delle grotte più affollate di creature bizzarre, non molto amate nell’immaginario collettivo. Pare che qui si annidi, tra l’altro, una folta popolazione di ragni non presenti in altre zone, perciò protetti. La Grotta dei Cugnoli, invece, trasmette più tranquillità perchè si trova vicino a Forello, al termine di un grande prato felicemente punteggiato di solenni querce. Quest’apertura di verde fa per un attimo dimenticare il mondo oscuro del sottosuolo, illuminando la montagna di leggera spensieratezza.

Mi fermo spesso qui e mi piace immaginare come dovesse essere l’esistenza milioni d’anni fa, senza esseri umani… solo questa immensa cattedrale di terra e acqua che custodisce la storia della nostra evoluzione.

Articolo a cura di Paola Cerana

 

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